In questo momento mi trovo nell’ufficio di Marta (infermiera e cooperante a Kimbondo), seduta sul divano con il computer sulle gambe, la musica nelle orecchie, la piccola Laura della Neonatologia di Kimbondo che gioca vicino a me e i pensieri che vanno a mille.
“Lela, ma tu cosa vuoi? Dentro di te cosa vuoi per te e il tuo futuro?” e poi una frase ricorrente che Marta mi ha ripetuto più volte: “Lela scegli una vita in cui tu possa riconoscerti”.
Quando a ottobre vi ho scritto per sapere se potevo partire per venire qui a Kimbondo, sapevo inconsciamente che stavo cercando qualcosa, qualcosa di ancora non definito e non certo, ma sicuramente qualcosa che come un pezzettino di puzzle potesse trovare un posto in me. A distanza di 2 mesi dal mio arrivo qui posso dire che quel qualcosa forse l’ho trovato o comunque che lo sto cercando nel posto giusto.
E poi Casa Patrick (Casa che ospita i ragazzi disabili di KImbodo). Il primo impatto con questa realtà non è stato facile, lo devo ammettere. Quel giorno pioveva, i bambini erano tutti seduti dentro il salone, bagnati di pioggia, sporchi di sabbia e qualunque altra cosa, si spingevano per avere più spazio per sedersi, i più piccoli piangevano perché volevano essere presi tutti in braccio e i più grandi si litigavano una bottiglietta di succo presa chissà dove. Avevo il cuore in gola. “Ma no, non può essere tutto qui, ci deve essere altro” e poi la scelta di provare a capire fino in fondo questa Casa, di mettere le mani in pasta, di cercare di andare oltre le mie idee da “mundele” (persona bianca) in visita perché oltre ci doveva essere altro. E così è stato. Ogni giorno scopro qualcosa di più di questi ragazzi, ciò che li fa arrabbiare, quello che li fa stare bene, con i loro gesti e le loro parole mi raccontano di loro e insieme stiamo costruendo un rapporto di fiducia e vedo che loro piano piano si stanno fidando di me e questo è un grande regalo. Mi rendo sempre più conto che come volontaria la cosa più importante per loro è la presenza, esserci: stare ad ascoltarli, capire di cosa veramente hanno bisogno, non allontanarli, non considerarli diversi o pericolosi. Casa Patrick è di più: è più di vestiti sporchi e piedini neri, sedie a rotelle aggiustate un po’ così come viene, più di quattro adolescenti messi lì per essere tenuti sotto controllo e curati come si deve, è più di pannolini da cambiare a tutte le ore anche a bambini che bambini non lo sono più ma continueranno ad esserlo, è più di parole inventate urlate al vento e versi animaleschi, di montagne di piatti e pochi cucchiai da lavare, è più di tutto questo. Casa Patrick mi ha accolta quando ancora sui miei piedi non c’era il segno dell’abbronzatura dei sandali, quando i miei capelli erano ancora ordinati, quando di lyngala non sapevo nemmeno dire ciao e di francese peggio ancora, quando i miei occhi non si fermavano mai alla ricerca di qualcosa da ricordare e fermare nella mente, quando ancora non avevo bussato all’ufficio di Marta dicendo “dimmi cosa c’è da fare, voglio darti una mano. Sono qui per loro e per te.”
E poi me li immagino questi ragazzi, mi immagino laboratori e attività fuori dagli schemi, mi immagino momenti in cui possano essere messi alla prova per misurarsi con le loro paure e scoprire che i limiti possono essere superati insieme, mi immagino giochi e palline da giocoleria che volano e cadono riempiendosi di sabbia (il mio essere claun di corsia e di circo sociale fanno andare le idee a mille! Deformazione professionale!), mi immagino le domeniche con feste e musica con anche i bambini delle altre case che vengono attirati dalla musica e dal vociare, pranzi condivisi e ospiti che si sentano accolti, mi immagino i ragazzi grandi che si ritagliano momenti per loro in cui poter condividere i loro pensieri e le loro idee e magari cercare di realizzarle insieme.
Sono consapevole che di tutto quello che la realtà di Kimbondo può offrire e farmi scoprire, ciò che ho vissuto fino ad ora non è altro che un assaggio, una piccola parte di qualcosa di grande. E allora una scelta: decidere di restare e mettermi al servizio di ciò che le circostanze chiederanno, oppure tornare a casa in Italia e lasciare che questa esperienza resti una parentesi nella mia routine quotidiana.
Ma a me la routine non è mai piaciuta, non mi sono mai trovata comoda nella ripetizione sempre uguale delle cose.
Allora sì, credo proprio di voler restare a lungo, di volermi buttare in questa cosa al 100%.
So cosa lascio a casa, le comodità che qui suonano come un lusso, la mia famiglia, gli amici, certi momenti… però so anche cosa c’è in ballo qui in questa parte di mondo che a volte sembra essere dimenticata da tanti, uno stile di vita che mi è sempre appartenuto fatto di cose semplice e poche pretese, di mettersi al servizio degli altri e vivere con spirito di condivisione.
Emanuela Posa (Lela)