Alessandro è un volontario di Servizio Civile in Mozambico che, nei 10 mesi di progetto, ha lavorato al fianco all’Associazione Machaka e ai suoi bambini e ragazzi.
Quindici minuti di cammino. Dieci minuti di attesa. Trenta minuti di autobus “Xipamanine-Malhazine”. Arrivo in una via lunga e stretta. Carretti traballanti carichi di cocchi trainati a mano sussultano sul ciottolato sconnesso, donne che vendono “Bajias” e “Rosquinhas” (ciambelle) appena fritte al lato della strada, ragazzi appoggiati a un muretto chiacchierano all’ombra di una tettoia in lamiera, le macchine rallentano prima di un dosso posto subito prima dell’uscita di un campetto da calcio.
“Mulungu mulungu!” una parola che continuo a sentire in sottofondo nelle prime settimane in cui mi reco a lavoro, non sempre mi sembra essere direttamente rivolta a me, è quasi un’ esclamazione. L’uomo bianco è arrivato a Mafalala, uno dei quartieri poveri della città di Maputo in cui non ci sono palazzi o edifici nuovi, tutto è costruito in modo che “stia in piedi”, in modo appena sufficiente a far sì che quella cosa, che sia una bancarella, un fornello per cucinare, funzioni. Non ci sono lampioni, non c’è asfalto, non ci sono cassette postali, non ci sono parcheggi per le auto, non ci sono alberi, non ci sono strisce pedonali, non ci sono edicole. In questa strada stretta, però, c’è un sarto che dalle 8 e mezza del mattino, tutti i giorni a parte la domenica, è seduto ad un tavolino con una macchina da cucire nera, al suo fianco ha una pila di vestiti alta all’incirca quanto la sua sedia. A pochi passi di distanza, sulla sinistra, c’è un piccolo patio ed una scritta su una delle pareti che lo circonda: Machaka.
Machaka nella lingua tradizionale parlata in Mozambico, lo changana, significa “famiglia”. Dopo qualche giorno dal mio arrivo ho scoperto che anche “Mulungu” è una parola in changana e che letteralmente significa “persona bianca”. Era quindi una vera e propria esclamazione, forse un saluto, oppure un vero e proprio gioco che mi ha ricordato, con un po’ di nostalgia, gli anni del caro e vecchio “Twingo gialla!”, un gioco a cui giocavamo sempre da bambini per ingannare il tempo durante le gita in pullman. Si basava unicamente sulla regola: se vedi una Twingo gialla devi dire “Twingo gialla!”, il primo che lo dice guadagna un punto. Chi fa più punti entro la fine della giornata vince”.
Che cos’è Machaka? È stata la prima domanda che ho rivolto a João quando l’ho conosciuto. Machaka è un’associazione culturale che ha come obiettivo la promozione della cultura nel quartiere di Mafalala, mi ha raccontato la sua storia, com’è nata l’associazione, quello che fanno, i loro obiettivi, i loro successi e le loro difficoltà. Ho fatto molte domande e ho ricevuto molte risposte. Dopo sette mesi passati qui, però, mi rendo conto che erano tutte risposte parziali, non perché ci fosse qualcosa che non andava in quello che mi è stato raccontato, ma perché le parole, almeno le mie, tolgono un po’ l’importanza a certe cose.
Come posso raccontare quello che ho vissuto e che sto vivendo qui senza tralasciare niente? Penso che in parte sia inevitabile, perché questa esperienza, per me, sarà stata più grande delle singole parti che l’hanno composta. Quando guardo João, Horácio e Omar, vedo dei ragazzi, giovani, allegri, con la voglia di fare del volontariato, di suonare e di ballare senza sosta. Alcune volte li vedo anche nelle loro “giornate no”, con il sonno negli occhi, la stanchezza del caldo africano, con la voglia di “descanso” (riposare) e di stare da soli con i propri pensieri. Ragazzi come me o come tanti altri che ho conosciuto in Italia. Se invece chiudo gli occhi e provo a pensarci vedo un’altra cosa, c’è in gioco molto di più: Machaka nasce in una piccola piazzetta, da una deviazione di una via stretta e lunga, che prosegue per centinaia di metri. Poco più avanti c’è una farmacia, ci sono due chioschi che preparano panini, uno che vende pneumatici, due bancarelle che vendono frutta e verdura, c’è un campo da calcio. Da questo punto in avanti la via cambia, Machaka sarà all’incirca distante 500 metri.
“Mulungo, ti chiedo 20 meticais.” “Mulungo, tutto bene?” “Mulungo, vuoi comprare qualcosa?”. I volti delle persone sono più scavati, gli occhi sono spenti, corpi di ragazzi giacciono a terra con la schiena appoggiata a una lamiera che fa da recinto alla casa di qualcuno, dormono e le persone gli passano intorno. Un ragazzo con la metà dei miei anni mi aiuta a raccogliere una bottiglia di vetro che vogliamo usare per realizzare un’opera d’arte insieme ai bambini del quartiere. Ha il corpo magro e lo sguardo di chi non dorme da un bel po’, mi domanda perché stessi raccogliendo le bottiglie e perché lo stessi facendo proprio in quella via. Gli spiego che sono un volontario, che stiamo realizzando una tartaruga fatta di bottiglie di vetro e lo invito a venirci a conoscere a Machaka.
Mi risponde che sarebbe venuto e, abbandonando il mio sguardo, si allontana. L’uso di droga, qualunque tipo di droga, è la piaga di questo quartiere. Entra nelle case e cattura figli, sorelle, amici privandoli di tutto quello che hanno. Li svuota. Questo è quello che ho visto in questa strada stretta e lunga: “Rua da Goa”, chiamata anche “Boca de Fumo”. É quello che ho letto in “Trainspotting” o sentito nei racconti dei miei genitori sulla piaga dell’eroina in Italia negli anni ’80, persone svuotate. “Qui, c’è in gioco molto di più”, mi ripeto nella testa. Non è “solo” musica, non è “solo” danza, non è “solo” teatro, non stiamo “solo” insegnando inglese o matematica, non è “solo” un dopo scuola per studiare di più e alzare il voto di un compito in classe.
Il futuro di Mafalala dipende dai bambini e i bambini dipendono dal futuro di questo quartiere. Ma non può esserci futuro senza la possibilità di scegliere. E quand’è che posso scegliere? Quando davanti a molteplici possibilità tutte ugualmente accessibili manifesto la mia individualità e con un gesto libero decido quale vita, tra quelle possibili, voglio vivere. Machaka fa proprio questo, rende liberi i bambini di poter scegliere, di potersi appassionare, di poter imparare, di poter sbagliare, di costruirsi un’alternativa: la loro.
Alessandro Aloi
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